Da sempre sono affascinato dalle storie e dal modo in cui danno forma il mondo: da come i grandi romanzi siano uno specchio delle società e dei tempi in cui sono stati scritti; da come la mitologia possa costituire una chiave di lettura originale per comprendere la storia dei popoli e dei luoghi che abitano; e, a livello più individuale, dal ruolo che l’autobiografia possa avere come forma di terapia e autocoscenza.
Più di tutto, però, adoro osservare il dispiegarsi degli effetti delle storie nella nostra contemporaneità e da come le une e l’altra si influenzino a vicenda. Le grandi narrazioni politiche modificano il modo in cui le nostre società “pensano” ai problemi che devono affrontare: quali sono i nessi causali fra gli eventi; quali opzioni di comportamento sono ritenute accettabili e quali meno; come si giusitificano e razionalizzano le strategie che andranno a perseguire.
Non sono l’unico ad avere questa piccola o grande ossessione, anzi: negli ultimi, termini come “storytelling”, “frame” e “narrazioni” sono entrati nel vocabolario comune di politologɜ, giornalistɜ e attivistɜ, diventando buzzwords che tutti utilizzano anche se, spesso, in modo un po’ confuso.

Accanto alla confusione, questa ricchezza di voci riflette un dibattito vivace e polifonico su un passaggio epocale della nostra comprensione epistemica del mondo, che si sta spostando sempre di più dai dati e dall’oggettività alle storie e alla loro interpretazione (nel doppio significato di “attribuire un significato” e di “impersonare e rappresentare”). È il narrative turn, bellezza.
Io non ho la pretesa di avere sott’occhio l’interezza del dibattito attuale su storytelling e narrazioni politiche, ma sicuramente voglio prenderne parte e con un obiettivo ben preciso: costruire delle nuove narrazioni inclusive, emancipatorie, di sinistra, che siano in grado di confontarsi con lo strapotere delle narrazioni escludenti, oppressive, discriminatorie che negli ultimi anni sono salite alla ribalta.
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