Come ti fa sentire sapere che dall’altra parte ci sono governi autoritari, troll factories e miliardari dell’alt right? Questo articolo è statooriginariamente pubblicato su Substack il 25 giugno 2024.
La scorsa settimana ho partecipato alla No Hate Speech Week 2024: un evento di tre giorni (alla faccia della settimana breve!) organizzato dal Consiglio d’Europa a Strasburgo con l’obiettivo di fornire ai e alle partecipanti (attivist@, researchers, practitioners e policy makers) uno spazio per lo scambio di pratiche, per la riflessione, per la formazione reciproca.

È stato un bell’evento, con un’agenda fatta di poche plenarie, molti workshop e parecchio spazio per il networking. E che, soprattutto, ha avuto il merito di toccare in modo più esplicito rispetto al passato un tema che mi sta molto a cuore: quello delle forze economiche, politiche, strategiche dietro alla diffusione dei discorsi d’odio.
Se da una parte infatti sofferenza e disagio sociale riguardano una porzione crescente di persone, sarebbe sbagliato credere che usare come capri espiatori i e le migranti, le donne o le persone lgbt+ (i tre principali target dell’odio) sia una “spontanea” risposta di poveri cittadini frustrati e dimenticati dai governi (come la narrazione dei movimenti populisti, principalmente – ma non solo – di destra, vorrebbe farci credere). Al contrario, esiste un enorme movimento di grandi imprenditori privati e di potenze straniere che supporta la creazione, diffusione e proliferazione di messaggi d’odio per un motivo ben preciso: una società più divisa è più debole rispetto alle minacce esterne e più propensa a cedere alle lusinghe di leader autoritari (o autoritarie).
Tutte cose abbastanza note, almeno fra addetti e addette ai lavori: eppure, sentirne parlare alla NHSW per me è stata una boccata d’ossigeno per due motivi.
Il primo è emotivo: per molti, troppi anni la retorica degli attivisti e delle attiviste è stata “tocca a noi”. Da come ce la raccontavamo, sembrava che fossimo a un flag di un post su Facebook o a un meme brillante su Instagram di distanza dal vincere la sfida contro l’odio online, e che in fondo dipendesse tutto da noi, dalla nostra volontà di affondare ancora di più le mani nella merda [scusatemi, ma non c’è termine più preciso] che si trova online o da quella di andare a fare l’ennesimo corso gratuito in una qualche scuola superiore.
E invece no:
c’è un livello di azione politica che viaggia ben al di sopra delle nostre teste e che riguarda il modo in cui sono costruiti e sfruttati gli algoritmi dei social network; il modo in cui sono finanziate e operano le troll factories russe; il modo in cui i big donors della alt-right internazionale influenzano le campagne elettorali di mezzo mondo.
La cosa controintuitiva è che saperlo e parlarne non mi ha demotivato: al contrario, mi ha aiutato a rivedere le mie aspettative e ricalibrare la mia strategia. Mi ha tolto un peso dal cuore riconoscere che non saranno i miei flag a interrompere una catena di odio e disinformazione in cui un governo autoritario ha investito diverse centinaia di milioni di dollari. E, d’altra parte, se non sono solo a rendermi conto della portata della sfida non sono nemmeno impotente.

Nei prossimi anni si giocherà negli Stati e nell’Unione europea una partita istituzionale su cui possiamo influire attraverso azioni di advocacy e lobbysmo, ma anche di informazione e trasparenza su chi opera davvero “dall’altra parte” (avremo tempo di approfondire, ma intanto due soggetti da tenere d’occhio: INACH e WhoDis). Occorrerà lavorare in modo strutturale e mirato e ci saranno sconfitte e momenti di delusione: ma avere una prospettiva di lavoro così concreta mi ha restituito un’energia che mi mancavano da molti anni.
Non male per una settimana di tre giorni.
