In occasione del lancio della RENA Summer School 2024 “SIAMO FORESTA”, ho intervistato Michela Mattei, designer della comunicazione con più di 10 anni di esperienza nel non profit. Questa intervista è stata pubblicata su Substack il 05 luglio 2024
Michela, io e te abbiamo lavorato assieme in diversi progetti di RENA, una community di cittadinɜ e un laboratorio di protagonismo civico che dal 2007 si interroga sulle condizioni che “danno forma alla società” (se vuoi saperne di più, clicca qui). Proprio nell’ultima assemblea generale – quella prima del lancio della Summer School 2024 – è scaturita una riflessione sulla comunicazione dentro-e-fuori-la-bolla. Per riassumere: spesso dentro i movimenti ci parliamo con un linguaggio da iniziatɜ molto ricco, complesso e generatore di significati nuovi, ma anche difficilmente comprensibile – e talvolta escludente – verso coloro che stanno fuori. D’altra parte, chi ha il compito di comunicare verso l’esterno viene spesso accusatə di semplificare troppo il linguaggio e di annacquare così le istanze di cambiamento.
Domandina facile facile per rompere il ghiaccio: tu che ne pensi?
Io sono una designer della comunicazione e cerco di tradurre intenzioni complesse con dei concept visivi che generino empatia. Nella tensione tra “linguaggio per iniziati” e “linguaggio semplificato” sento quindi di avere un ruolo terzo, però mi pongo sempre dalla parte di chi non sa.
“Comunicare” significa “rendere comune”, “far conoscere”, ed è una nostra responsabilità, come attivistɜ e come designer, misurare l’efficacia dei linguaggi che usiamo e imparare a stare in codici linguistici diversi da quelli dei movimenti/bolle a cui ci sentiamo di appartenere.

E come si lavora con i movimenti, o le bolle, a cui non apparteniamo o di cui non padroneggiamo i codici linguistici? Possiamo avere un ruolo anche lì?
Sì, credo di sì. Io mi occupo principalmente di progettazione visiva, ma in questi casi mi muovo un po’ come un’antropologa, attraverso l’osservazione partecipata.
A RENA, per esempio, mi sono immersa nella vita associativa e parallelamente ho cercato di decostruire la postura da designer che crede di sapere sempre cosa e come è più giusto comunicare. Può funzionare nel profit (il mondo in cui ho mosso i primi passi professionali), dove la strategia di comunicazione viene impostata su parametri misurabili, ma non nel terzo settore: ogni volta che ragiono per trend e propongo a realtà sociali delle soluzioni strutturate secondo schemi di vendita, leggo lo spavento di chi non si sente rappresentato e vedo il rischio di uno scollamento dal progetto.
È stato il terzo settore a insegnarmi a coniugare l’elaborazione di un linguaggio visivo rivolto verso l’esterno con la sensibilità per le dinamiche di aggregazione collettiva.
Per riassumere: unǝ bravǝ communication designer a servizio di soggetti collettivi crea campagne di comunicazione che alimentano il senso di appartenenza al gruppo, contribuisce a solidificare relazioni e a innescarne di nuove. Solo in questo modo l’ingaggio iniziale diviene coinvolgimento continuativo.
Sembra molto bello a dirsi, ma non so quanto sia facile a farsi. Ci fai qualche esempio concreto di questo processo?
Prendiamo un progetto che ho amato particolarmente: Heroes, un programma di formazione e accompagnamento rivolto a gruppi che lavorano con giovani under 35 a rischio di esclusione sociale, e di cui è in corso la seconda edizione.
Mi avevano chiesto di creare un’identità visiva che parlasse della necessità di abbattere le barriere sociali che creano disparità e fin dal primo incontro ho messo in discussione l’idea che la mia sola esperienza sarebbe bastata.
Volevo tutelare la diversità come forza generatrice senza scadere nella retorica; e volevo raffigurare la pluralità non in quanto target passivo, bensì costruire un processo capace di coinvolgere attivamente la collettività che avrebbe poi animato il progetto.
Il risultato è stata una matrice 3×3 in cui ho inserito un volto in continuo cambiamento i cui nasi, occhi e bocche fossero disegnati dalle persone coinvolte nel progetto. Durante un momento associativo ho proposto allɜ sociɜ di RENA un esercizio di disegno; un’attività informale che lɜ lasciava liberɜ di giocare. Da parte loro non c’era la consapevolezza del progetto d’insieme né l’ansia da prestazione che viene all’idea di disegnare qualcosa di definitivo. E poi ho inserito i vari elementi nel logo:
I feedback che abbiam ricevuto sono stati positivi sia dai partner che delle realtà selezionate ma, al di là del giudizio estetico,
il vero successo sono stati l’empatia generata dalla diversità dei disegni e il senso di partecipazione al processo da parte dellɜ sociɜ.
Traducendosi in un accresciuto senso di ownership del design, molto di più che se tu avessi proposto un risultato già pronto. Molto interessante, grazie per l’esempio. Hai adottato lo stesso approccio per la Rena Summer School 2024?
Sì. Come di consueto, ho lavorato a stretto contatto con lɜ sociɜ per raccogliere la complessità dei punti di vista e delle urgenze comunicative. Dai momenti aggregativi, come l’Assemblea generale a cui facevi riferimento all’inizio dell’intervista, era emersa la necessità di rappresentare un approccio sistemico, un common ground della molteplicità di mobilitazioni che come associazione – e anche come singolɜ – portiamo avanti. Volevamo immaginare futuri in modo corale, creando un terreno comune che tenga dentro la diversità e la pluralità, ma anche la godibilità, la felicità, il piacere.
L’identità visiva nasce da questa ricetta: ho usato un processo analogico e non digitale per generarla, provando, per prima, il piacere di usare i colori acrilici e creare delle texture randomiche che traducessero un’idea di terreno comune (la composizione dei colori insieme), nella tutela delle singole espressioni (i colori restano identificabili nelle singolarità ma acquistano forza nella loro interazione).
L’associazione semantica fra terreno comune e diversità si è agganciata all’idea di foresta. Ci siamo così resɜ conto che ciò che volevamo raccontare non era soltanto una storia:
SIAMO FORESTA è un’unione di intenti, è diventare un terreno fertile per osservare i futuri emergenti con uno sguardo carico di immaginazione.
E per la seconda volta hai nominato piacere e dimensione ludica. A questo punto ti chiedo quanto questi due elementi siano importanti nel tuo approccio.
Ti rispondo così: il filosofo Telmo Pievani, in un’intervista, ripercorre l’evoluzione umana e propone un’ipotesi plausibile: probabilmente il linguaggio è stato creato dallɜ bambinɜ, lɜ unicɜ ad avere il tempo – perché tutelatɜ dalla comunità che se ne prendeva cura – di costruire storie a partire da immagini reali e surreali. Siamo animali narrativi a cui piace molto giocare e credo che la comunicazione visiva abbia il potere di creare quelle suggestioni utili per una lettura più immaginifica (e piena) delle storie che ci circondano.


